Lo ricordo nell’atrio dell’albergo, con un libro di matematica in mano, guardare a volte i colori irrecuperabili del cielo.

– Jorge Luis Borges

Sono polvere.

Conservata nei corridoi di questa scuola, custodita dal tempo e nel tempo. Simile al matematico gesso che si appiccica ai vestiti, che entra nella pelle, che lucida gli occhi. Il gesso che avevo tra le dita il giorno in cui ho finito di fare lezione, il pomeriggio in cui sono diventato polvere io stesso. Ho sbriciolato la mia ultima equazione in classe il 17 ottobre del 1953, il giorno prima del mio cinquantatreesimo compleanno, simmetria quasi perfetta. Con l’immancabile sigaretta nella mano, sono rimasto ancorato alle piccole consuetudini fino all’ultimo. Le nostre vite sono linee continue ed orientabili nello spaziotempo; nel cronotopo, come lo chiamavamo negli anni trenta, come lo chiamò per la prima volta Hermann Minkowski nel 1908. Ma sono linee finite il cui bordo non è determinabile, se non approssimativamente; due punti di accumulazione che racchiudono il nostro tempo . Nel passato la nascita, minuscolo big bang personale; nel futuro la morte, creatrice di polvere. Spaventosi confini di vertigine entrambi; inevitabili, complementari e, nel mio caso, quasi simmetrici. Per un giorno.

Sono polvere, ma non lo sono sempre stato.

Nel breve tempo in cui mi avete chiamato Zeno, anche io, come voi, ho vissuto. Anche io, come voi, sono stato in Arcadia, come i pastori del quadro di Paussin che tanto amai da ragazzo. Adesso quei pastori siete voi, voi che ancora respirate questi corridoi, queste aule, questi luoghi che ancora, a modo loro, mi ospitano. Prima di diventare polvere ho visto cose meravigliose, ne ho ricordo e memoria, anche qui, anche adesso. Con la matematica, per la matematica, attraverso la matematica ho visto un orizzonte che è riservato a pochi viaggiatori.

“Sul campo metrico di Weyl nel microcosmo”, questo il titolo della mia tesi di laurea. Milano, 1931, nono anno dell’era fascista. Sulla copertina sbiadita dal tempo si vede ancora quel EF vergato a mano. Una tesi ardita, un tentativo importante dice il mio maestro, Bruno Finzi. Di soli tre anni più vecchio di me, è appena diventato titolare di cattedra all’Università. E lui a indirizzarmi verso questa tesi, elogiando il mio lavoro. Per incoraggiamento, o per speranza che qualcuno possa seguire le sue intuizioni. Sono gli anni d’oro della fisica moderna, ogni nostro passo sembra aprire strade impensabili, impensabili risultati. Il campo metrico che compare nel titolo è una intuizione di Einstein e il nome di Einstein compare (nel maiuscolo incerto della macchina da scrivere) subito, nelle prime righe. Il padre di tutto quello che stiamo provando, tentando, immaginando, di ogni nostra intuizione. Ancora al suo posto a Berlino, per poco. Sono anni veloci, sono anni terribili, ombre di inquietudine si stendono sull’Europa. Proprio nel 1931, mentre mi laureo, Einstein scrive al ministro italiano della Giustizia, Alfredo Rocco sull’imposizione di giuramento di fedeltà al partito fascista a tutti gli accademici d’Italia. E’ necessaria questa umiliazione? Einstein rimane generico nella lettera, ma sta pensando a Tullio Levi-Civita, il grande matematico italiano che ha salvato, insieme a Emmy Noether, la teoria della relatività generale dalle sue contraddizioni matematiche e a cui Einstein è particolarmente legato per stima e riconoscenza. Nessuna risposta dal ministro. Milano non è Berlino, abbiamo giurato quasi tutti, io continuo a pensare alla mia tesi.

Il campo metrico che descrive gli effetti della gravità sulla geometria dello spazio e del tempo è un’idea di Einstein, ma non è il suo nome che compare nel titolo. Weyl ha modificato, ampliato e generalizzato le idee di Einstein per includere l’elettromagnetismo nelle equazioni del campo, per unificarlo con la gravitazione ed ottenere una teoria universale. Abbraccio subito quell’idea, la faccio mia, la esploro, non posso sapere che è un vicolo chiuso, che già in quegli anni sia Einstein che lo stesso Weyl nutrono dubbi su questa strada. Ma l’approccio sembra buono ed io provo una via ancora più radicale: portare l’unificazione nel microcosmo, nel regno incerto della nascente fisica quantistica. Vado avanti, segno il terreno; Finzi ha tracciato una direzione, ma sono io che ho camminato, che ho fatto i calcoli, che ho avanzato nuove ipotesi, non lui. Non lui che nel 1932 partecipa al Convegno dei Matematica Internazionale a Zurigo, un evento importante, la riunificazione della comunità scientifica dopo le divisioni dovute alla grande guerra. Ascolta la conferenza di Emmy Noether, prima donna invitata a parlare ad una sessione plenaria. Bruno parla davanti alle migliori menti matematiche dell’epoca, si confronta in quella occasione con lo stesso Weyl. Ma parlano di altro, presumo; io non sono andato a Zurigo, l’idea dell’unificazione nel microcosmo la coltivo ormai solo io, a Milano. Come si concilia lo spaziotempo regolare, continuo, infinitamente derivabile di Einstein (il cronotopo, sono affezionato a questo termine ormai desueto) con la natura discontinua del mondo quantistico? Il problema diventa ossessione in quegli anni e lo sarà per molti nei decenni successivi. Ne parlo nel gruppo di lavoro riunito intorno a Finzi e al Seminario Matematico e Fisico di Milano dove nel ‘32 faccio parto del comitato direttivo. Con Radici, con Rota, con Rossi. Con Pastori, l’astro nascente della matematica tensoriale; sarà lei a collaborare con Bruno per anni, sarà lei ad ereditare moralmente e matematicamente la ricerca sul calcolo tensoriale, un filo che la lega ai più grandi matematici, Tullio Levi-Civita in testa. Quando verrà cacciato dall’università in quanto ebreo, Maria gli scriverà una bellissima lettera. Ma adesso, nel 1931, a Milano, anche con lei mi confronto. Fino a sera, oltre la sera, parlo della mia idea nascente.

Sono in Arcadia, la mia personale Arcadia matematica. E scrivo. Due memorie importanti, 1932 e 1933; sempre con la conversione in era fascista, scritta in numero romano. Ma non più a mano o con la macchina da scrivere, come per la tesi di laurea; questa volta la dicitura è stampata vicino all’intestazione della Regia Accademia Nazionale dei Lincei. Ho proposto una nuova struttura dello spaziotempo, l’ho chiamato fibrato, come se fosse un tessuto. Da lontano sembra lo stesso spaziotempo di Einstein e Weyl, una varietà quadrimensionale continua; ma da vicino diventa altro, emerge la sua natura quantistica, indeterminata e indeterminabile. Credo sia la strada giusta, ho usato quella che oggi chiamereste geometria non commutativa. Indago questa nuova struttura, cerco di capire se sia connessa, se ci siano dei buchi. Parlando dell’universo proprio in quegli anni Borges scrive: “abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità per sapere che è falso”. Ecco, a Milano, in quei pochi e rapidissimi anni, ho ipotizzato, studiato, esplorato interstizi di assurdità nella struttura intima dello spazio e del tempo. La mia personale Arcadia.

Nel 1933 Hitler sale al potere. Einstein e Weyl, che riempiono le mie pagine, si spostano a Princeton per non tornare mai più in Europa. Non è ancora arrivata l’etichetta di fisica ebrea, i miei lavori sono passati in tempo prima della censura. Ma mi sono fermato. Nel 1933 mi fermo. In ufficio ho una pila di copie dei miei articoli, le ho fatte stampare per distribuirle ai convegni, per mandarle, come si usa, ad altri studiosi, a qualcuno che possa capire questa idea di spaziotempo come tessuto non commutativo. Sono firmati a mano, con pennino e inchiostro: “Per omaggio devotamente offre l’autore, Pycha”. Devotamente offro. Rimangono con me. Non provo tristezza, non ho rimpianti. Et in Arcadia ego. C’ero, ci sono stato. Ancora la malinconia dei pastori nel quadro di Poussin. Perché ho smesso? Indeterminazione.

Passano due anni, la leva militare, e poi, nel 1935, passo il concorso a cattedra per i Licei Scientifici del regno. Un salto temporale, un salto quantistico. A Udine, al Regio Liceo Scientifico Giovanni Marinelli, trovo un altro tipo di universo, un nuovo fibrato non meno misterioso. Invece delle geometrie non commutative, al posto dei tensori, mi ritrovo tra banchi, lavagne e la necessità di spiegare la fisica e la matematica dalle basi. La bellezza dello stare in classe diventa quotidiana. Anche qui c’è una trama nascosta, un tessuto non visto, anche qui inizio a costruire la mia personale visione; seduto alla cattedra provo un nuovo tipo di unificazione, studenti e studentesse sono un cronotopo vastissimo dove cercare interstizi eterni.

Un salto, ancora uno, l’ultimo. La guerra è finita, Udine si srotola tra le montagne e una pianura discontinua, un altro fibrato, un cronotopo immutabile. Non scrivo più di fisica o matematica, i miei lavori con dedica scritta a mano sono in qualche scaffale della biblioteca del Marinelli in attesa della polvere (ancora lei), Milano sembra lontana, a volte mi manca la mia piccola Ortisei. Ho pubblicato un libro nel 1951, poche copie, una riflessione epistemologica sulla scienza da cui però mi sento ormai lontano. “Razionalità e Realtà”, un nuovo tentativo di ricostruire, di ricostruirmi. Da qualche parte, nei meandri del Ministero, ce n’è una copia che ho spedito per il Premio per le Scienze Filosofiche del Presidente della Repubblica, “classe di scienze morali”, così dice la dicitura. Lo ha vinto Gaetano Capone-Braga e la copia non me l’hanno restituita.

Tutto mi avvicina al mio ultimo punto di accumulazione. Il quadro di Poussin sbiadisce, prende forma un altro quadro, del Guercino, di poco anteriore. Et in Arcadia ego; cambia però il soggetto, adesso a parlare non è il ricordo di un tempo migliore, è la morte. Anche in Arcadia il tempo termina, persino in questa terra ideale la linea spaziotemporale ha un’estensione finita. Alla malinconia del passato subentra la fredda verità che ci rende umani. Spietatamente umani.

Lo spaziotempo conserva il suo segreto, almeno per me. Ho vissuto in Arcadia? Posso conservarne il ricordo anche ora che parlo da solo nei corridoi di questa scuola, anche ora che osservo le lavagne dall’altro lato? O è della morte l’ultima parola, il suo dominio sui ricordi, la vera e unica Arcadia? Guercino con il suo memento mori o Poussin con la malinconica rievocazione di una vita passata? Ha importanza scegliere? Non credo, forse possiamo lasciare ancora una volta indeterminata la risposta.

Sono polvere, anche voi lo sarete. Ma di polvere è fatto l’universo e il suo inconoscibile tessuto. Averlo intravisto è il senso di quella minuscola porzione di spaziotempo che qualcuno chiamò, con affetto, Zeno Pycha.

Nota.

Ringrazio la collega Angela Schinella per avermi chiesto, in occasione dei 100 anni del nostro Liceo, di scrivere questo breve ritratto di Zeno Pycha, professore di Matematica e Fisica al Marinelli dal 1935 al 1955. Ringrazio anche Anna Tomasella per avermi aperto gli scaffali polverosi della biblioteca storica del Marinelli ed avermi fatto ritrovare alcuni scritti di Pycha (firmati con la sua sottile grafia da pennino d’altri tempi). In un primo momento avevo pensato di costruirne un breve profilo biografico e scientifico, ma il collega e amico Francesco De Stefano mi ha preceduto di circa 10 anni avendo scritto un bellissimo ricordo di Pycha nell’annuario del novantesimo del Marinelli (rimando a tale articolo per ulteriori notizie sulla sua vita e sulla sua breve ma intensa produzione scientifica). Ho quindi preferito impostare il ritratto su un registro diverso nella speranza di incuriosire e spingere ad ulteriori, personali esplorazioni. Mi sono servito delle poche fonti a mia disposizione, per il resto ho immaginato; mi scuso per ogni eventuale distorsione.

Il titolo e l’idea di fondo vengono dalla lettura di un saggio di Erwin Panofsky sull’opera del pittore Poussin e sull’indistricabile connessione tra memoria, malinconia e permanenza che la matematica (e in parte la poesia) rivela appieno.